Incontro con Joel Meyerowitz
La sala è gremita, oltre 400 posti nel suggestivo Auditorium San Fedele in pieno centro a Milano. Qui in passato si sono riuniti artisti e fotografi, sono stati proiettati film di alto spessore culturale, sono state organizzate rassegne musicali con concerti di lirica. Ci sono persone di tutti i tipi e di tutte le età, accorse per ascoltare la letio magistralis di quello che ad oggi è considerato il più grande fotografo americano vivente: Joel Meyerowitz. Classe 1938, una carriera lunga cinquant’anni, unica persona ad aver fotografato Ground Zero nei giorni successivi al disastro dell’11 settembre.
Meyerowitz si presenta in abiti semplici, una giacca dalle linee asciutte, in splendida forma. Magro, alto, un sorriso entusiasta e lo sguardo solare di chi ha visto la storia e ha l’onore di raccontarla. Non gli daresti mai l’età che ha, se non ricordando le sue numerose amicizie e collaborazioni: Garry Winogrand, Tony Ray-Jones, Lee Friedlander, Tod Papageorge e Diane Arbus. Fu tra i primi a usare la pellicola a colori e a credere nel valore della fotografia, in un’epoca in cui – così racconta con sarcasmo e ironia – il colore era destinato ai pubblicitari o ai fotoamatori, e il lavoro di fotografo non permetteva neanche di arrivare a fine mese. Oggi invece i suoi scatti vengono venduti a peso d’oro, e al di là del puro valore economico è indubbio quello artistico e storico delle sue fotografie, repertori di un’America in evoluzione tra contraddizioni e patriottismi, tra simboli di decadimento e sprazzi di rinascita.
Mentre proietta i suoi lavori dal 1962 fino al 2012, in un corposo portfolio intitolato “Taking my time” (ovverosia: una raccolta misurata e attenta, senza fretta), come un attore teatrale racconta aneddoti e dispensa consigli, farcisce le immagini di dettagli e ricordi, spiega come e perchè certi scatti sono nati e, come un maestro sincero e mai austero, descrive alla platea quali sono gli elementi oggettivi che trasformano una fotografia comune in una fotografia leggendaria. Sorride quando mostra la prima foto che il suo maestro e committente Robert Frank decise di inserire in una mostra alla National Gallery di New York: un ritratto in bianco e nero molto semplice, sporcato dalla presenza di una grata in primo piano che imprigiona il soggetto. Ma proprio quella grata, elemento esteticamente disturbante ma ricco di significato, fu il motivo principale della scelta, nonché l’insegnamento primario per Meyerowitz che non è la tecnica a definire la grandezza di un’opera artistica, ma piuttosto il tocco personale e il significato recondito che l’artista vi imprime.
Nel corso della propria carriera, Meyerowitz ha attraversato molte fasi. “Dopo un certo periodo e ciclicamente,” dice, “ho sempre sentito il bisogno di cambiare e fare cose nuove. Vivo così la fotografia, come una sorta di rinascita continua”. Non tutte queste fasi sono state capite dalla critica e dagli amici. “Sul finire degli anni ’80 ho iniziato a perseguire un nuovo modo di fare fotografia, alla ricerca di una profondità degli spazi unita alla presenza in scena di persone in primo piano, il tutto grazie a fotocamere di grande formato. Quando ho mostrato queste foto ai miei amici, mi hanno detto: Joel, hai perso il tuo tocco magico. Io non la vedevo così. Sono immagini diverse rispetto alle precedenti, ma facente parte di una mia sperimentazione, il tentativo di unire gli spazi alle persone che li abitano.”
L’architettura, l’ambiente e gli spazi saranno proprio al centro delle sue più recenti immagini, quelle post 11 Settembre. Quando parla di quel giorno e di tutto quello che ne è seguito, Meyerowitz diventa improvvisamente fiero delle sue origini americane e al tempo stesso cinico nei confronti di un sistema politico che non permette libertà di espressione e limita i giovani sia economicamente che culturalmente. Le immagini delle torri gemelle distrutte e degli uomini al lavoro alla ricerca dei corpi sepolti sotto le macerie suscitano in lui commozione e rispetto. È fiero di ricordare come, a dispetto dei divieti imposti dall’allora sindaco Giuliani riguardo all’accesso a Ground Zero, alcuni detective lo abbiano “protetto”, permettendogli di penetrare nel sito e raccogliere, attraverso le sue foto, la testimonianza storica della ricostruzione. Le ultime immagini raccontano di un uomo che, all’ultimo giorno di lavoro, si sofferma ancora a cercare reperti biologici che aiutino a identificare le vittime. E poi del binario di una vecchia linea ferroviaria che passava sotto le torri, riportato alla luce proprio dagli scavi successivi al loro crollo. “Mi piace pensare che esista sempre una speranza che le cose sepolte, all’improvviso, rivedano la luce e restituiscano al mondo cose che si credevano dimenticate”.
Nel corso dell’incontro, il fotografo si è dimostrato aperto alle domande e all’interazione col pubblico, ricordando l’importanza di portare sempre con sé una macchina fotografica (magari una Leica, proprio come la sua da cui non si è mai separato), perché “non è possibile prevedere il momento in cui accadrà qualcosa che, senza la fotografia, potrebbe addirittura non essere esistita mai”.
La conferenza termina con un lungo e meritato applauso. Ma le immagini di Meyerowitz continueranno a stupire grazie alla mostra “Sightseeing – Un sentimento della vita” che il Centro Culturale San Fedele (Via Hoepli 3/B, Milano) ospiterà fino al 30 Novembre 2013. Un modo per avvicinarsi alle immagini di questo grande personaggio, che scoprì la fotografia come destino nel lontano 1962 e che è stato testimone e narratore, nei luoghi della metropoli, dell’immensa commedia umana.
“Sightseeing – Un sentimento della vita”
Dal 28 ottobre al 30 novembre 2013 presso Centro Culturale San Fedele (Via Hoepli 3/B, Milano)
16.00/19.00 dal martedì al sabato e al mattino su richiesta (chiuso 1 e 2 novembre)
For the images: © Joel Meyerowitz. Published under fair use principle.