Venezia 72 – “Why Hast Thou Forsaken Me?” di Hadar Morag
Muhammad è un adolescente arabo che vive ai margini di una poverissima città israeliana. Trascorre le sue giornate nel degrado delle periferie, sporcate dalla criminalità e dall’odio razziale di altri ragazzi che lo respingono e lo deridono. La sua bicicletta lo porta a vivere situazioni al limite che accentuano la sua solitudine e la sua adolescenza difficile, seguito dall’occhio vigile della telecamera che la segue con movimenti forsennati e mossi. Un giorno incontra per caso il ben più vecchio Gurevich, spirito libero che percorre le stradine della città con la sua moto e si guadagna da vivere affilando coltelli di macellerie e ristoranti. Muhammad lo convince con tenacia a prenderlo con sè e a insegnargli il mestiere, ma quella che nasce come un’educazione professionale si trasforma ben presto in un’ammirazione maniacale e in un tragica parabola di sentimento e gelosia.
Il film della regista israeliana Hadar Morag è una pellicola cruda, lenta ma incessante, in cui si assiste a un sommarsi di disagio, di sofferenza, di declino. La fotografia, cupa e impersonale, tratteggia i contorni di un mondo in cui la solitudine fa da padrona, sia negli occhi dello sperduto Muhammad, sia in quelli del più maturo, ma non per questo maggiormente forte, Gurevich.
Del resto il titolo stesso, frase presa in prestito dal Vangelo, cita le parole che uno sconsolato Gesù Cristo, condannato alla croce, pronuncia al Padre che sembra averlo lasciato in balia del proprio destino: “Perchè mi hai abbandonato?” (“Why Hast Thou Forsaken Me?”)
Ed è l’abbandono la chiave di lettura principale del film: abbandono sia fisico che mentale, talvolta abbandono ai sensi, talvolta a un sentimento che risulta crudele e inaccessibile, o comunque certamente incomprensibile. Abbandono, soprattutto, alle colpe che il protagonista sembra dover espiare.
Non esiste redenzione per chi, come Muhammed, non è in grado di interpretare le motivazioni che spingono i suoi gesti, in un cammino verso la crescita adulta che si muove sul pericoloso binario di un’amicizia/amore sbagliati e impossibili, nonché sulla follia di una morbosa gelosia che lo divora, nel momento in cui scopre che il suo (s)oggetto d’amore non è altro che un personaggio ambiguo che offre a troppi giovani le proprie cure.
La pulsione sessuale, che in Muhammed si evidenzia solo nei diversi momenti in cui si dà piacere tramite la masturbazione (nuovamente vi è un’insistenza attorno a un’espressione gestuale della solitudine), non riesce invece ad avere sfogo nei confronti dell’adulto, che per lui è figura di riferimento ma al tempo stesso fonte di confusione. Essa diventa dunque una nuova colpa, un peccato biblico (la regista ha studiato teologia) che può essere lavato solo col sangue e l’estirpazione di ogni desiderio, ottenibile solo ed esclusivamente con una punizione corporale che è azzardato mezzo per giungere a un suicidio. Ma se togliersi la vita ha un significato squisitamente morale, punirsi nella modalità scelta dal protagonista ha invece un senso spietatamente fisico, che attira su di lui la somma di tutte quelle crudeltà che è stato costretto a sostenere nel suo viaggio verso una consapevolezza sentimentale inaccessibile.
La rude schiettezza raccontata dalla sceneggiatura si trasferisce con pari intensità in uno stile registico acerbo, graffiato da una camera a mano che è esplorazione nella periferia urbana ma anche strumento di indagine della complessa mentalità adolescente del protagonista, in un incedere fin troppo tranquillo e asfissiante, che trasporta lentamente lo spettatore verso il dolente ma necessario epilogo finale.
Un film di Hadar Morag. Con Muhammad Daas, Yuval Gurevich.
Titolo originale: Lama Azavtani.
Drammatico, durata 94 min. – Israele, Francia